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giovedì 3 febbraio 2011

Quell'interminabile piacere di perdersi tra le pagine.

I libri argentini più significativi del 2010. La traduzione di un articolo uscito su Pagina/12 e pubblicata su largentina.org e su blog.edizionisur.it
di Silvina Friera

Tutte le strade conducono alle viuzze polverose della provincia di Buenos Aires. Emilio Renzi rimescola i pensieri di quell’anno – 1972 – nel quale le tensioni sono dislocate sulle scritte alle pareti, dove “Perón torna”. Bisognerebbe inventare – dice – un nuovo genere noir, la fiction paranoica. “Sono tutti sospettosi, tutti si sentono perseguitati. Il criminale non è più un individuo isolato, ma un gruppo che detiene il potere assoluto. Nessuno capisce che cosa succede, le piste e i testimoni sono contraddittori e tengono i sospetti sospesi, come se dovessero cambiare sempre interpretazione. La vittima è il protagonista e il centro dell’intrigo. Io sono ormai il detective privato o l’assassino a contratto.” La tentazione di ricordare un frammento di “Blanco Nocturno” (Anagrama), una delle migliori  opere di fiction di questo 2010, è tanto arbitraria quanto ingiusta, considerate le magistrali lezioni narrative di Ricardo Piglia. Si sa che qualsiasi resoconto naufraga, quali siano le buone intenzioni, nelle acque dei capricci e dei gusti del lettore. Soprattutto quando si cerca di selezionare, con la smania di “illustrare”, una piccola parte di questo romanzo tanto proclive, come tutto ciò che ha il marchio dello scrittore, a essere citato per le frasi, i toni, le riflessioni che suscita pagina dopo pagina. Provare a leggere tutto quello che si pubblica in queste terre prolifiche – che lanciano alla galassia dei lettori, arrotondando, qualcosa come ventimila titoli all’anno- è una missione se non impossibile almeno di lungo respiro, che oltrepassa ampiamente il quadro temporale.

Ma, fatta questa dichiarazione, c’è una salubre mescolanza di libri nell’inventario di questo anno segnato dalla presenza argentina alla Fiera del Libro di Francoforte. Prima di passarli in rassegna  si impone l’aggiunta di qualche riga in più su “Blanco Nocturno”. Come se restituisse l’importanza del personaggio al suo corrispettivo epico, Piglia mette in scena una galleria di creature indimenticabili, come l’avventuriero e seduttore portoricano Tony Durán, le gemelle Sofía e Ada e il commissario Croce, un “pazzo” incantatore. E il personaggio più tragico e straziante, Luca, eroe “arltiano-peronista”. Forse il più indimenticabile di questo romanzo per la sua ostinazione nel preservare la materia dei suoi sogni fino alla fine. Nonostante lo scenario sia la città – in un presente di degradazione e decadenza – c’è un filo tragico che potrebbe legarlo a un altro straordinario romanzo di quest’anno: “El oficinista” (Seix Barral), di Guillermo Saccomanno, vincitore del Premio Biblioteca Breve. Il calvario dell’anonimo e grigio protagonista non dà respiro al lettore. L’impiegato in questione è un uomo zoppo tanto paranoico e disgraziato al punto che quando decide di rubare si tiene una collana di pietre promettenti che non è altro che una cianfrusaglia. La sua disgrazia è estrema. Quando si innamora della sua segretaria e crede che l’amore sarà la sua redenzione sulla Terra, raggiunge solo il tradimento. Nella trama affrettata che la memoria compone per un bilancio si insinuano “ponti” tra le opere e i personaggi – barlumi di parentela, affinità o aria di famiglia -, una specie di prematura esplorazione di terre che altri potranno esplorare. Ma si può accarezzare un sogno? La domanda finale di “Oscura monótona sangre” (Tusquets), di Sergio Olguin, potrebbe stabilire un’incipiente relazione tra il protagonista, Andrada, un padre esemplare e imprenditore di successo, con il grigio impiegato di Saccomanno. Si potrebbe dire che, con le distanze del caso, entrambi provano ad accarezzare quel sogno.  I due romanzi irritano per la loro ferrea perlustrazione delle classi; sono lontani da essere un balsamo per le coscienze che coltivano con cognizione di causa la correttezza politica. Olguín accetta la sfida di invertire ruoli “naturalizzati”, pregiudizi di vecchia data. Nel suo romanzo il soggetto pericoloso non è l’abitante delle “villa miseria”, ma un uomo di classe media, benestante. “Sì nella villa ti derubano o ti sparano”,  ritornello amplificato fino alla nausea dai mezzi di comunicazione.  Andrada non solo cerca una prostituta adolescente in quel territorio che gli è estraneo: l’imprenditore uccide un giovane della villa. La vittima della violenza e dell’insicurezza non è il figlio prospero della classe media.
Nel ventaglio di letture è possibile scivolare dalla tossica “ficcion paranoica” di Piglia a un’opera maestra del “realismo mistico”. “En cinco minutos levantate María” (Alfaguara), di Pablo Ramos, è il formidabile finale della trilogia autobiografica di cui è protagonista Gabriel Reyes. Anche se la protagonista di questo romanzo, per la verità, sarebbe la madre di Gabriel, complessa e sottile voce di una casalinga che ha superato i settanta e che passa in rassegna i suoi ricordi. Che desidera che non ci siano più alcol né droghe nella sua famiglia. Che si ribella a suo modo. Ma si ribella. Un narratore “stravagante”, medico biogenetico, è presentato in “El corazón de Doli” (El Ateneo), di Gustavo Nielsen. Victor, copia esatta di suo fratello Sergio, ha una missione difficile nella vita: sostenere in tutto Sergio, l’originale; essere una scorta viva di organi. Ma la replica precisa, una specie di Frankenstein della pampa, non accetterà la sua condizione di schiavo. Il romanzo gioca con  un futuro molto vicino, in cui abbondano le manipolazioni genetiche, gli esseri clonati e le copie surrogate di giochi interattivi. Un futuro dietro l’angolo, minacciato dal passaggio dalla sessualità senza procreazione alla procreazione senza sessualità.
Che notte meravigliosa, bella in ogni piega di angoscia, regala Leopoldo Brizuela in “Lisboa. Un melodrama” (Alfaguara), ambizioso romanzo di più di 700 pagine, barocco nel montaggio di ogni pezzo che lo compone, teatralmente pirandelliano, con esseri nudi e carne lacerata. Bisogna immergersi nel tunnel del tempo di quella memorabile notte del 1942 nella capitale portoghese. L’aria è intrisa di terrore per l’occupazione nazista e per il bombardamento degli alleati. Il fado e il tango si intrecciano in questa Lisbona costruita da Brizuela. Un verso di quel tango che è “Secreto”, “quién sos vos, que no puedo salvarme”, è il vettore principale di una trama in cui si incrociano la fragilità di Discépolo, la forza intrepida di Tania e la sensualità di Amália Rodrigues. La paura, l’imminenza della guerra, sigla una manciata di segreti inconfessabili in un altro contesto.
“Un thriller dal linguaggio femminile”. Così Luisa Valenzuela definisce il suo romanzo “El mañana” (Seix Barral). Il titolo del romanzo allude al nome di una nave che aveva trasportato diciotto scrittrici che partecipavano a una specie di seminario galleggiante. La festa del linguaggio ha avuto fine quando un commando militare interrompe la celebrazione al grido di “lesbiche”, “streghe”, “sovversive”. Accusate di essere terroriste, sono condannate a un arresto domiciliare; depredano le loro biblioteche, i loro libri scompaiono dalle librerie e dalle biblioteche, come se non fossero mai esistiti. Gli viene proibita la parola e la scrittura. Ma la protagonista, Elisa Algañar, si prenderà gioco della sottomissione che subisce nel campo di concentramento in cui si è trasformata la sua casa. Lo farà a dispetto di una società che nel romanzo non si ribella e che sembra accettare il temibile “qualcosa avranno fatto”. Come era successo durante la dittatura. “El ultimo caso de Rodolfo Walsh” (Norma), di Elsa Drucaroff, thriller che ha inizio nel 1972 e che ha come protagonista l’autore di “Operazione massacro”, incita a smuovere le acque di un dibattito ineludibile sulla militanza politica, la lotta armata e un dialogo intergenerazionale che costa ancora ricostruire.
Un personaggio da ricordare è il protagonista di “El otro de mí” (Eterna Cadencia), di Miguel Vitagliano, un uomo medio nevrotico e sconcertante che crede di essere una buona spia e annota nei suoi quaderni tutto ciò che fa, dice e gli viene detto. C’è qualcosa di inquietante nella trama del romanzo, le cui parti sono come strati di intimità che si dispiegano via via fino ad arrivare – dal minore al maggiore – al nucleo duro di tutta una “ficcion” che squarcia il velo del domestico per andare più in là delle quattro pareti domestiche. Come può, chi non ricorda, dire qual è il luogo della sua nascita se ha perso la memoria? La domanda corre tra i racconti della narratrice dell’eccezionale “Desarticulaciones” (Eterna Cadencia), di Sylvia Molloy, una donna che visita quasi quotidianamente ML, una rovina della donna che fu a causa dell’Alzheimer di cui soffre. Molloy scrive un testo demolitore in cui cerca di capire quel “essere/non essere” di una persona che si disarticola avanti a suoi occhi. “Cada despedida” (Adriana Hidalgo), di Mariana Dimópulos, è un altro importante romanzo del 2010, la cui protagonista è una ragazza affetta dalla “sindrome della valigia”. La giovane, che a 23 anni si sente vecchissima, scappa da tutte le città, cominciando da Buenos Aires, seguendo per Madrid, Malaga (Spagna), le tedesche Heilbronn, Heidelberg e Berlino. Spende dieci anni della sua vita in quel frenetico itinerario finché ritorna e si stabilisce  in una fattoria vicino a El Bolson, insieme a Marco, l’unico uomo che aveva amato o creduto di amare. Una scrittura imbastita da frammenti che tramano una simultaneità, come se tutto succedesse in un presente successivo.
“Toda la verdad” (Seix Barral), di Juan José Becerra, è un altro dei “romanzetti” da raccomandare. Il diminutivo si riferisce alla brevità, appena 130 pagine sconvolgenti per la sterzata improvvisa che viene data alla storia quando l’ingegnere Antonio Miranda ritorna a quella società che un giorno, senza un motivo apparente, aveva abbandonato. Dopo aver vissuto un’esperienza rivelatrice in campagna, si trasforma nello scrittore di best-seller del momento. Due personaggi “separati alla nascita” confluiscono in quel vaso di Pandora intitolato “El otro tiempo” (Ediciones del Copista), di Carlos Dámaso Martinez: un avvilito professore di arti visive fedele ai mezzi d’informazione e un commerciante di cuoio che lui stesso crea in un racconto  che comincia a scrivere, ambientato all’inizio del XIX secolo. Latra, latra senza smettere, il tormentato Joaquín Riste concepito dall’eccezionale Gustavo Ferreyra in “Dóberman”, Premio Emecé.
Tra i racconti, vanno citati i “Relatos Reunidos” (Alfaguara), di Hebe Uhart, la migliore scrittrice di racconti argentina, affermazione che ha prodotto la curiosa coincidenza tra Fogwill – il primo a dichiararlo nella quarta di copertina dei libri di Uhart- e Piglia, uno dei precursori nell’insegnare i racconti dell’autrice di “El budín esponjoso” nei corsi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires. Altri due libri di racconti restano nella cerchia dei migliori del 2010: “La hora de los monos” (Emecé), di Federico Falco, e “El principio del terror” (Mondadori), di Diego Fisherman. C’è una donna che rompe lo schema del saggio, che sperimenta nella cornice dei generi, inabissando la speculazione, il cui fine segreto, guadagno e beneficio dichiarato è “ribaltare il mondo”. Josefina Ludmer, una delle critiche letterarie più lucide di questo paese, colpisce le precarie certezze dei suoi lettori in “Aquí América Latina (Eterna Cadencia), pezzo straordinario nel suo desiderio di essere letto in modo differente – fondendo in ogni passo il reale e il fittizio, la critica e la letteratura, il pubblico e il privato -, che costringe a inventare una nuova categoria per la fabbrica Ludmer; categoria che lei, logicamente, si fa carico di polverizzare, felicemente, in un nuovo libro. Come è solita fare questa autrice di “riflessioni in movimento”.
“Las memorias” di Leonidas Lamborghini, Mezcolanza (Emecè), recupera l’oralità irriverente del poeta, un’insalata russa verbale attraversata da  Roberto Arlt, Enrique Santos Discépolo, i testi del tango e Dante. Tra i saggi letterari pubblicati quest’anno va menzionato il formidabile “Una profecía del pasado”, di Edgardo Dobry (Fondo de Cultura Económica), un’analisi centrata sul progetto di Leopoldo Lugones in “El payador”. Se la narrativa può risultare un po’ tossica, un paio di libri di poesia riusciranno a eclissare lo sconforto e aumentare la dose poetica nel sangue di molti lettori. Le righe incalzano, ma c’è da mettere in evidenza i “200 años de poesía argentina” (Alfaguara), di Jorge Monteleone; “Horla city” (Emecé), la poesia completa di Fabián Casas; “El eco de mi madre” (Bajo la luna), di Tamara Kamenszain; l’antologia di “poesia selvaggia” “Si Hamlet duda le daremos muerte” (Libros de la Talita Dorada), che polemizza con la cosiddetta “poesia dei ’90”; il primo libro di Camilo Blajaquis, “La verganza del cordero atado” (Continente), e “Poemas pendientes” (Alción), di Rodolfo Alonso. Prima di alzare i calici, preferibilmente con la mano sinistra, tre ultimi libri da divorare: il primo tomo del peronismo, “Filosofía política de una persistencia argentina” (Planeta), di José Pablo Feinmann; “Valientes” (Marea), di Hernán Brienza, e “La mano izquierda de Dios”, di Horacio Verbitsky, epilogo della sua monumentale “Historia política de la Iglesia Católica”. Adesso sì: dopo di un simile 2010, si può brindare a un 2011 di libri molto buoni.

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